Diario di una giornata onirica, tragica, comica, realistica, epica e un po' patetica.
Sembra una buona giornata, nonostante il sogno di stanotte.
Mi sono preparata e sono uscita, come sempre. Anzi, il sole di queste mattine di novembre mi mette di buonumore. Devo assistere alla presentazione di un libro all'Università, al Suor Orsola, dove ho appena concluso un master. Il Suor Orsola si trova al corso Vittorio Emanuele, una zona in cui mi nuovo agevolmente, dove solitamente non fatico a parcheggiare. Quasi come giocare in casa. Invece, una volta giunta nei pressi dell'Istituto, c'è qualcosa che non va.
Sulle strisce blu nemmeno un posto ma c'è sempre il solito garage. Macché tutto pieno, anche al secondo giro. Perfino il parcheggiatore abusivo è scomparso e vedo un cumulo di macchine ammassate. Pazienza, rifaccio il giro di nuovo, visto che l'inversione a U è impossibile. Ma al semaforo anziché imboccare la giusta rotatoria, vado un po' più avanti e a quel punto devo proseguire. Il tempo passa, la strada si allunga a dismisura, forse una delle traverse laterali consente di ritornare nei pressi della zona che devo raggiungere. Provo a chiedere lumi ad uno che sembra indigeno ma l'impressione si rivela infondata. Proseguo, muovendomi a naso, mentre le stradine diventano sempre più strette e contorte. Sembra proprio il sogno di stanotte. Quando ormai mi sembra di avercela fatta, evito con perizia due operai che attraversano trasportando una grossa lastra di vetro e a quel punto mi rendo conto (troppo tardi) che ho imboccato una strada con divieto di accesso.
Le auto dal giusto senso di marcia cominciano ad avvicinarsi minacciose al muso della mia KA, mi trattengo dal lanciare un urlo e affidandomi al mio angelo custode, comincio una faticosa retromarcia: 20-30 metri che mi sembrano interminabili. Dopo una sterzata più energica, il collo e la fodera della giacca, fanno in sincrono uno strano suono, un crepitio doloroso, nel caso del collo. Si prosegue, qualche paletto di striscio ma nulla di grave. Quando ormai intravvedo il segnale stradale di senso unico che mi indica la retta via, la parte posteriore della mia KA incontra un'auto rossa e non riesco ad andare né avanti né indietro, con le auto sempre più minacciose e gli autombolisti sempre più spazientiti.
A Napoli, per molto meno, c'è gente che le ha prese di santa ragione.
Ricaccio di nuovo in gola l'urlo: sono in evidente difficoltà. Il sudore comincia a grondare copioso dalla fronte (e non è solo questo strano caldo di novembre) e le mie guanciotte sono decisamente arrossate. A quel punto, l'istinto ed il fattore sorpresa sono l'unica arma. Spengo il motore ed apro lo sportello e dico impunita: "mi dispiace ma non ho visto il cartello, non volevo creare tutto questo casino ma ora o mi aiutate ad uscire o stiamo qui fino a domani". Attimi interminabili di silenzio. Poi il mio sventurato dirimpettaio, esce dalla sua auto, si appiglia alle ultime dosi di pazienza e mi dà le giuste direttive per fare gli ultimi metri.
Imbocco la strada nel senso giusto ma non ho la più pallida idea di dove mi sia ficcata. Ancora stradine sconosciute. Mi fermo a chiedere ad un altro apparente indigeno, mentre uno dei reduci della disavventura precedente, e passandomi accanto me ne dice qualcuna, seppure lieve.
Si ci sono quasi, l'ingresso di un garage dove non ce lo metteresti, mostra uno speranzoso semaforo verde. Dopo aver svoltato una piazzetta addossata ad una chiesetta, varco la discesa che mi conduce finalmente all'agognato parcheggio.
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